I Barnabiti in Afghanistan – Una missione di pace in un crocevia dell’Asia

saggio di P. Filippo Lovison, barnabita

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«Basta uno sguardo alla posizione geografica dell’Afghanistan per capirne la caratteristica di Crocevia dell’Asia… Non fu però un crocevia passivo ed inerte. Paese di antica civiltà esso pure, assunse secondo l’opportunità importanti iniziative nelle fasi della civiltà iranica ed indiana, svolse parti essenziali nella competizione coloniale anglo-russa, ha ed avrà la sua parola da dire nello sperato assetto definitivo e libero della nuova Asia»[1].

Fermamente voluta da papa Pio XI (1922-1939) pochi anni prima lo scoppio della Seconda guerra mondiale, in un territorio immenso e in condizioni che sembravano sconsigliare una qualsiasi forma di presenza, dato che l’Islam afghano rimane comunque impenetrabile al cristianesimo, la presenza della più infima minoranza cristiana al mondo nel cuore di un paese quasi completamente islamico – tra il suo isolamento e la necessità di confrontarsi con altre filosofie religiose e realtà esistenziali – ha via via assunto i connotati di un poliedrico quanto variegato contributo di pace delle Chiese cristiane, ad intra e ad extra.

Terminate le lotte per l’indipendenza nel 1919, il re Amanullah aveva infatti inviato in Europa una missione diplomatica per trattare il riconoscimento dell’Afghanistan come paese indipendente. L’Italia lo concesse immediatamente, e il 30 giugno 1921 venne firmato il Trattato “italo-afgano” e decisa l’apertura di una delegazione nelle due capitali. Una clausola del medesimo Trattato prevedeva l’istituzione di una cappella e di un cappellano cattolico nella sede della Legazione italiana: un privilegio accordato “unicamente” all’Italia, in segno di riconoscenza per averne per prima riconosciuto l’indipendenza.

La conseguente apertura internazionale richiamò un gran numero di personale straniero a Kabul, nel campo diplomatico come industriale. Da qui l’esigenza di assicurare l’assistenza spirituale agli stranieri cristiani di tutte le confessioni dimoranti in Afghanistan e non solo un servizio religioso per i cattolici del corpo diplomatico e delle ambasciate nella capitale o per i gruppi di cattolici di qualsiasi nazionalità: la maggior parte risiedeva a Kabul, circa 200, e a Kandahar, dove vi era un complesso industriale della Morrison & Knudsen, e poi nei piccoli cantieri separati di Mansel Bah, ecc.

E così l’Opera di Assistenza Spirituale ai Cattolici in Afghanistan iniziò ufficialmente il 1° gennaio 1933. Pio XI volle scegliere personalmente il suo primo cappellano nella persona del suo concittadino, il barnabita P. Egidio Caspani, che poi scriverà, assieme al confratello P. Cagnacci, il prezioso libro: Afghanistan crocevia dell’Asia, tra i più completi e precisi mai fino ad allora pubblicati.

Il barnabita preposto godeva dello status diplomatico ed era l’unico sacerdote ufficialmente autorizzato ad esercitare il suo ministero nel paese, dove non vi erano afghani cristiani, e dove l’Islam vietava ogni forma di proselitismo e di conversione, pena la morte; così almeno prima dell’invasione russa. Una “parrocchia” dunque che copriva gli stessi confini dell’Afghanistan[2].

Nel 1966 la cappella venne ricostruita ex novo, assieme alla residenza del cappellano, nel compound della nuova Ambasciata d’Italia a Kabul. Un’interruzione nella presenza si registrò nel 1994 quando il P. Giuseppe Moretti dovette abbandonare l’Afghanistan dopo un bombardamento che distrusse l’ambasciata, lasciandolo ferito. Vi poté fare ritorno nel maggio del 2002, dopo la fine del ruolo svolto dai talebani e dopo la riapertura ufficiale dell’Ambasciata d’Italia a Kabul nel novembre 2001, per la quale però il Governo italiano non aveva previsto la riapertura della cappella, benché contemplata dal Trattato del 1921. Fu la Santa Sede a sollecitare con forza il ritorno del cappellano per l’assistenza spirituale alla numerosa comunità internazionale, e ciò si realizzò grazie alle trattative tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli Affari Esteri Italiano; su designazione di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), il P. Moretti poteva così fare ritorno a Kabul nel maggio del 2002, sebbene con una presenza di basso profilo[3].

Silenziosa missione di pace

Se “qui ci vuole un barnabita” aveva esclamato Pio XI, l’esito della presenza – sia dal punto di vista sacerdotale come umano – apparve subito appeso all’inventiva e allo spirito di sacrificio dei cappellani votati a una vita di grande solitudine: pressoché invisibili alla popolazione locale e a tal punto ritirati all’interno dell’Ambasciata da far ritenere i Padri che si alternarono come degli autentici “sufì”, asceti, oltre che poliglotti[4].

Se la “pace” corre anche sui binari della carità e della cultura, il P. Bernasconi (in Afghanistan dal 1947-1957) riuscì ad ottenere l’ingresso permanente nel paese per le Piccole Sorelle del P. De Foucauld, come infermiere nell’ospedale afghano, col permesso di vestire sempre l’abito religioso; un vero miracolo! (rimasero dal 1955 fino al 2012); favorì poi l’ingresso, come docente nell’Università di Kabul, del domenicano P. Sergio de Bearucueil, uno tra i più grandi esperti di islamologia e studioso del poeta afghano Ansari; aprì infine la prima scuola per i figli dei diplomatici e dei tecnici occidentali, che poi diverrà la American School da una parte e la Michelangelo School del suo successore, P. Panigati, dall’altra.

In questo modo però si mettevano a nudo anche diverse contraddizioni, come quella, per esempio, inerente all’organizzazione umanitaria tedesca Friedensdorf, sorta nel 1967 a Hoberhausen (Germania), per i bambini malati e feriti provenienti dalle zone di guerra e di crisi, i cui volontari si sentivano sempre più a disagio per scelte prevalentemente fatte sulla base di legami col potere non sempre rispettosi delle reali necessità sul terreno[5].

Se la “pace” corre anche lungo le misteriose insondabilità dei rapporti umani, proprio il P. Panigati, in Afghanistan per 25 anni, dal 1965 al 1990, lasciò una traccia indelebile nei cuori di afghani, stranieri, cattolici, cristiani, non credenti, aprendo una pagina ecumenica e di dialogo interreligioso di non poco spessore[6].

«I miei parrocchiani mi chiamano padre, anche se non porto nessun segno di sacerdozio. Gli afghani – musulmani, sikkh o ebrei – mi chiamano Mullàh sahìb (Signor Prete), anche se non sono uno di loro. Il personale dell’Ambasciata d’Italia – dove sono ospite e quindi extraterritoriale in Afghanistan – è più sofisticato e mi chiama padrì sahìb: il che puzza di impero britannico. Mullàh sahìb, oltre a possedere il colore locale significa molto per me. Vuol dire che mi assimilano ai loro guidatori di preghiera, ai loro maestri, ai loro rabbini; e che chiamandomi signor prete, mi considerano uomo di Dio, anche se la mia verità non è del tutto nei loro libri sacri»[7].

Per questo nella sua piccola scuola ospitava anche diversi alunni ebrei (fuori Kabul, a Herat per esempio, le sinagoghe erano ben tre e vi risiedevano i rabbini). Vi andavano soprattutto per imparare l’inglese allo scopo di emigrare. Grazie a questo rapporto scolastico fu possibile al P. Panigati entrare varie volte nella sinagoga o esservi invitato per lo Yom Kippur.

«Sia giovedì che venerdì, tornando dal bazar, ho visto gli ebrei uscire in massa dalla sinagoga. La “massa” di ebrei. A Kabul, non è più quella di una volta, ma il gruppo che è rimasto (un migliaio?), è compatto, convinto, devoto. Lo so perché fino al recente ordine del governo avevano i loro figli nella mia scuoletta e perché ero spesso invitato alle loro feste e perfino alla sinagoga. Non ho mai potuto sottrarmi all’intuizione dell’“albero dell’umanità?” Il tronco, per noi, sono gli ebrei. I rami siamo noi musulmani e cristiani. Ma la linfa è una sola: Dio. Il tronco che si sviluppa è la continuazione della vocazione d’Abramo attraverso i secoli e la sua paternità plurinazionale. A volte mi viene di pensare ai buddisti, agli indù e alle altre religioni, come a degli innesti su questo grande albero dell’umanità, perché l’idea predominante è sempre quella dell’unità degli uomini. Lo so che è un sogno ancora lontano e che i politici fanno di tutto per ritardarne la realizzazione. Ma è la meta. In questo sabato santo non posso neppure sottrarmi alla certezza che la promessa di Cristo – il nuovo Abramo – si avvererà: “Quando sarò “alzato” attrarrò tutto verso di me”»[8].

Anche per questo un giornalista nel 1983 gli scriveva: «Grazie alla pur breve esperienza afghana, ho cominciato a scoprire la spiritualità che è in ognuno di noi e che il mio dogmatico materialismo aveva sempre rifiutato»[9]. Ma ben presto il P. Panigati divenne un punto di riferimento anche per coloro che cercavano una “pace” del tutto artificiale, ossia i numerosi giovani hippy che attorno agli anni ’70 accorrevano in Afghanistan, uno dei paradisi artificiali allora più frequentati; se ne ha sepolti molti nell’ex cimitero di guerra a Scerpur, trasformato in cimitero cristiano, d’accordo naturalmente col Governo afghano e d’intesa con tutte le Rappresentanze interessate, molti ne ha salvato, comunicando poi alle loro famiglie l’esito del destino di coloro che gli stessi afghani chiamavano i “fissatori”, ossia: quelli che fissano[10].

Se poi la “pace” nasce dalla testimonianza, così P. Panigati descriveva la permanenza di un confratello che nell’anno 1971 lo sostituì per un breve periodo:

«Ha avuto contatti ecumenici così spontanei, come se ne trovano pochi fuori da questo ambiente. Si è presentato [il P. Luigi Cagni] come prete cristiano agli afghani dell’Ambasciata, del bazar, dei villaggi e dei centri che ha attraversato, e da tutti ha ricevuto il rispetto e la tolleranza di questi musulmani che, anche se non credono in Gesù come Figlio di Dio, lo ritengono un grande profeta e un incomparabile maestro di vita. Ha trasformato la polemica tipica di chi viene da paesi cristiani, prima in discussione, poi in dialogo, e finalmente – forse senza accorgersi – in irradiamento del vivere evangelico, il che è il vecchio e nuovo modo di essere veramente missionari»[11].

Se è poi vero che la “pace” nasce sui banchi di scuola, il P. Moretti, che rimase in Afghanistan dal 1990 al 2014, fu promotore della costruzione della “scuola della pace” a Tangi Kalay, a circa 20 chilometri da Kabul. Inaugurata nel marzo 2005, questa scuola elementare ospitava circa 900 tra bambini e bambine, che arrivavano anche dai villaggi vicini. Fu costruita grazie agli aiuti economici provenienti dall’Italia e alla collaborazione dei militari del 6° Reggimento Genio Pionieri di Roma, che livellarono un’area di circa 15.000 mq. Una “scuola di pace” per dare un futuro di speranza e dove tutt’oggi vi insegnano maestri di ogni confessione cristiana[12]. Il P. Moretti aveva anche il sogno – ancora irrealizzato – di una chiesa pubblica fuori dell’Ambasciata italiana, che ospita attualmente l’unica cappella cattolica di tutto il paese.

Un altro interessante aspetto concerne i rapporti con l’esterno da parte dei cosiddetti “parroci” di Kabul, così felicemente definiti dal Prof. Cottini del PISAI. Lo si può bene osservare anche solo attraverso la stessa passione per la fotografia. Al momento del suo ritorno in Italia, le Piccole Sorelle di Gesù del Padre De Foucauld donarono, infatti, il 30 giugno 1965, al P. Nannetti (rimasto in Afghanistan dal 1957 al 1965)[13] un album fotografico di quella meravigliosa terra: una vera e propria piccola storia per immagini, oltre al valore in sé legato agli scatti fotografici – rigorosamente in bianco e nero – di Rolando Schinasi, e ai commenti autografi della moglie May[14]. Il pregio dell’album è proprio quello di offrire un vero e proprio itinerario spirituale che rimanda a una riflessione più ampia tra il cielo e la terra degli eterni pellegrini dell’anima alle prese con il duro “lavoro” della vita. Si possono considerare come dei veri e proprio “scatti di pace” [15].

Un non meno significativo aspetto riguarda l’esperienza del vivere il cristianesimo come “minoranza” in Afghanistan e come “profezia” per un Occidente alle prese con il post-cristianesimo, dove si sorvola sulle radici culturali ebraicocristiane della civiltà europea.

«Ho capito allora, io, prete della minoranza straniera cristiana in un paese solidalmente mussulmano, che c’era posto anche per me. Dovevo, certo, restare nei limiti del mio servizio ai cristiani di passaggio. Mi si negava ogni possibilità di proselitismo o di missione; ma il paese era a mia disposizione per conoscerne le bellezze naturali, gli usi e i costumi e, perfino, per condividere lo spirito religiosi nei punti che più ci univano»[16].

Di fronte alla sua scarsa credibilità, un’esperienza concreta di ecumenismo tra le confessioni cristiane presenti in Afghanistan veniva così descritta dal P. Panigati nell’anno 1968:

«Forse in nessun altro posto, come in questo paese totalmente non cristiano, si capisce meno la divisione della Chiesa, o se ne capisce meglio la tragicità o si percepisce con maggiore evidenza l’intrinseca “cattolicità” del Vangelo. Ed è forse per questo che i cristiani di ogni confessione si sentono qui molto vicini gli uni agli altri…. Alle quattro Messe domenicali di questa cappella, assiste ormai mezzo migliaio di persone circa. Ebbene, almeno il quindici per cento non sono cattolici… Purtroppo l’isolamento in cui ci si trova non permette a questo “esempio di ecumenismo” di contagiare tutto il mondo, ma sono certo che se la Chiesa del mondo dei grandi contatti, la Chiesa dei cosiddetti “grandi”, volesse proporsi una meta ecumenica raggiungibile, dovrebbe imitare i… cristiani dell’Afghanistan»[17].

Basti anche solo leggere il lungo rotolo, di alcuni metri, dei ringraziamenti da parte di un gruppo di protestanti di Kabul al P. Panigati[18], per avere loro prestato la chiesa cattolica per il proprio servizio religioso nel Natale del 1973.

«Ecumenismo che potrebbe sembrare “a oltranza” ma che, qui, è spontaneo come la respirazione. Nella mia chiesa ricevono insieme la prima comunione i miei bambini cattolici tedeschi, e la cresima i ragazzi luterani tedeschi. L’idea l’ha avuta il mio collega luterano che mi chiama “Bruder Panigati”, che non ha chiesa per la sua comunità, e che è in comunione con me come se fossimo stati in teologia assieme»[19].

Nei tempi più difficili della repressione sovietica ai padri come alle suore i musulmani poi chiedevano una “preghiera d’intercessione” per quel loro paese martoriato dalla guerra[20]. Il cappellano cattolico diveniva così l’unico punto di riferimento per tutti, cattolici come di altre confessioni cristiane o degli stessi musulmani afghani.

Erano toccati anche dal loro coraggio, come quando un anno prima dell’invasione sovietica del 1978 un parrocchiano inglese del P. Panigati venne imprigionato per spionaggio. Solo per la Pasqua ottenne dalla polizia segreta il permesso di visitarlo assieme al Console. Fu portato in stanza da quattro agenti, uno dei quali era il loro istruttore proveniente da un paese dell’est Europa. A un certo punto Panigati prese dalla tasca una scatoletta con un’ostia: «Signori, dice, a Pasqua, nella mia religione, abbiamo l’abitudine di condividere il pane». Ma un agente subito gliela strappò. Il consigliere straniero ordinò: “Al laboratorio”. Ma lui con un balzo riprese l’eucarestia, spezzò l’ostia in due, prendendone prima lui stesso la metà e comunicando subito dopo il prigioniero. Rimasero tutti allibiti ma capirono che non era veleno né un modo per comunicare con la presunta spia. La visita si interruppe. Alla porta uno degli agenti afghani gli sussurrò: «Scusi Padre, quel consigliere era un pericolo per la loro vita se il loro spirito di ospitalità fosse andato oltre “lo spirito del regime”»[21].

Un ultimo aspetto necessariamente riguarda i rapporti con gli stessi afghani. La presenza dei Barnabiti fino ad oggi ha contribuito a dare una idea ben diversa di cosa sia in realtà l’Islam afghano. P. Panigati ricordava come in un suo viaggio nel paese:

«Il capo di una tribù di nomadi mi chiamò addirittura fratello. Gli chiesi: “Sai che non sono musulmano?” – “Certo che lo so: ma capisco che, dalla mattina alla sera dovunque, con chiunque e qualunque cosa tu faccia, sei esattamente quello che sono io stesso: colui che sta sempre coscientemente, con Dio”»[22].

Un’esperienza che cambiava la vita soprattutto ai cristiani, anche di fronte al cosiddetto Minareto della Morte, eretto dai buddisti a tremila metri di quota sulla catena montuosa che a sud chiude l’altopiano di Kabul, sormontato dalla Ruota, simbolo della legge di Budda; da lassù bene si intravedono i minareti della capitale. Un giorno, salendo proprio al Minareto con alcuni amici stranieri, la discussione con il P. Panigati si spostò sulla religione, quasi accerchiata dal trio: Buddismo, Islam e Cristianesimo, al punto che gli fu chiesto se la religione, come la politica, fosse divisiva.

«Se si va all’essenziale – rispose – la religione non divide. E allora da dove vengono le divisioni? La diversità dei “Maestri” può essere una causa: Budda, Gesù e Maometto sono diversi, ma la gente nasce in contesti ed epoche diverse, quindi in diverse culture. La divisione tra gli uomini è innanzitutto, credo, diversità di cultura. Ma fondamentalmente credo che la divisione sia frutto di uno sbaglio nel modo di concepire la religione. Se Dio è la meta della ricerca e il punto comune del nostro interesse, nonostante la diversità di cultura, gli uomini religiosi si ritrovano in armonia. La differenza tra l’uomo ecumenico e l’uomo fanatico è una questione di apertura e di chiusura; l’uomo ecumenico è aperto a una realtà universale che è Dio, il fanatico è chiuso su se stesso, su un Dio che è soltanto per sé. In un nido religioso dove egli si trova bene, senza preoccuparsi di Dio stesso se non in modo egoisticamente strumentale. Guardando i tulipani sentivo naturalmente un certo dispiacere perché, nella ricerca comune di Dio, molti non fossero ancora guidati da Gesù per il semplice fatto di non conoscerlo. Ma poi, pensando a Gesù stesso, sentivo la sua grande “apertura” e capivo il significato universale della sua morte salvifica»[23].

Conclusione

Il Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Fernando Card. Filoni, nella sua Presentazione al volume Ottanta anni in Afghanistan, come possibile chiave interpretativa di questa peculiare presenza richiamava il naufragio decritto negli Atti degli Apostoli (28,1-10), in quanto a Malta non vi era stata alcuna evangelizzazione ma un dialogo di vita tra maltesi pagani e quel gruppo di naufraghi, tra i quali San Paolo[24].

Un’esperienza analoga vissuta nell’Islam afghano; nessuna possibilità di evangelizzazione diretta ma un dialogo di vita dove molto si riceve da quel popolo dando tutto quello che potrebbe accettare e che dimostra di gradire[25]. Da allora l’Afghanistan rappresenta una “strana”, chiamiamola così, ma provvidenziale missione di pace nel cuore dell’Islam, attraverso la testimonianza di una presenza disinteressata, silenziosa e nascosta, capace di guardare in alto e alla comune necessità di una personale conversione:

«Alla scuola tedesca parliamo di conversione. Leggiamo il passaggio di Nicodemo dove Cristo parla di rinascita spirituale. Chiedo ai ragazzi di illustrare il concetto con un disegno personale. Discutono un po’ poi decidono tutti di disegnare l’alba. Li guardo mentre lavorano e vedo che l’Afghanistan li ispira. Montagne scure dietro le quali sorge il chiarore. I colori dell’alba sfumati verso l’orizzonte. Un blu intenso nell’alto del cielo. Se non ci fosse l’alba ogni giorno si invecchierebbe davvero presto. L’alba è un bisogno naturale, come la conversione, come ricominciare da capo. Rinnovarsi»[26].

[1] E. Caspani – E. Cagnacci, Afghanistan crocevia dell’Asia, Milano, Antonio Vallardi Editore, 1951, Introduzione (recensito anche da G. Weller, in «The Middle East Journal», Summer 1952, vol. 6, n° 3, Washington, D.C., pp. 350-351). Si vedano anche: E. Caspani, Aspetti interessanti dell’Afghanistan odierno, Estratto da «L’Universo». Rivista dell’Istituto Geografico Militare, Anno XXXI, n° 6, Novembre-dicembre 1951; Id., Kabul capitale dell’Afghanistan, in «Le vie del Mondo». Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XIII, Giugno 1951, numero 6, pp.  609-624; E. Cagnacci, Il “buz kascì” gioco della steppa, in «Le vie del Mondo». Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XIV, Luglio 1952, numero 7, pp. 771-775; E. Caspani, Lahore – Delhi, in «Afghanistan», 1 (Janvier, Fevrier, Mars, 1946), pp. 41-42;  Id., Les Murs de Kaboul, in «Afghanistan», 2 (Avril, Mai, Juin, 1946), pp. 33-36; Id., Les premiers contacts entre la Chine et l’Afghanistan et les origines de la route de la soie, in «Afghanistan», 3 (Juillet, Août, Septembre, 1946), pp. 30-35; Id., La promenade archeologique de Kaboul, in «Afghanistan», 4 (Octobre, Novembre, Decembre, 1946), pp. 35-43; Id., Le Nau-Bahar de Balkh, in «Afghanistan», 1 (Janvier, Fevrier, Mars, 1947), pp. 45-50; Id., Terre de pique-niques et d’archéologie, in «Afghanistan», 2 (Avril, Mai, Juin, 1947), pp. 45-50; Id., Le premier americain en Afghanistan, in «Afghanistan», 3 (Juillet, Août, Septembre, 1947), pp. 22-27; Id., A propos d’une supposee sculpture sur roche dans la région de Mazar – é – Charif, in «Afghanistan», 1 (Janvier, Fevrier, Mars, 1948), pp. 20-24; Id., Relatio fundamentalis pro S. Congregationis de Propaganda Fide quoad Catholicorum assitentiam in Afghanistan (25/1/1940).

[2] Da sempre alla missione è stata riservata una notevole attenzione da parte dell’Ordine dei Barnabiti; si vedano i numerosi articoli apparsi sulle sue riviste e, in particolare, in alcune pubblicazioni particolarmente espressive della sua identità, come nel caso dell’articolo di G. Moretti, Afghanistan. “Qui ci vuole un barnabita”, apparso in Barnabiti ieri e oggi, numero unico edito in occasione del 450° dell’approvazione pontificia dell’Ordine dei Barnabiti, Roma 1983, pp. 22-23.

[3] A differenza del passato, sul suo passaporto diplomatico risultava essere ora solo un “addetto” all’Ambasciata e non più formalmente suo “cappellano”. In controtendenza la Santa Sede volle elevare nello stesso anno 2002 l’Afghanistan a Missio sui iuris, di cui il Barnabita era il superiore ecclesiastico “seu ordinarius Missionis”, godendo anche dei privilegi di un prefetto apostolico; quindi molto più di un semplice cappellano dell’Ambasciata.

[4] Sulla loro missione si veda: Ottanta anni in Afghanistan, F. Papa – G. Villa – G. Rizzi (edd.), voll. I-II, Roma 2014, con abbondanza di documenti e di testimonianze, e con un’interessante Raccolta fotografica di ben 264 immagini (cfr. vol. I).

[5] Cfr. I parroci di Kabul: dal re ai talebani. Una strana missione tra diplomatici, mujaheddin e beduini, G. Rizzi (ed.), Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2016, p. 246. Si veda l’estesa bibliografia ivi riportata da p. 453 a p. 471.

[6] Cfr. A. Panigati, Ecumenismo a Kabul, in «Eco dei Barnabiti», 3 (1968), pp. 8-10.

[7] Archivio Storico dei Barnabiti di Roma [d’ora in poi ASBR], Fondo Afghanistan, Sala Retro Ovale, 1 Scaf., 12.1/12, Diari di Padre Angelo [Panigati], I, Presentazione, 1974; cfr. anche I parroci di Kabul, op. cit., p. 181.

[8] Diari di Padre Angelo [Panigati], I, op. cit., pp. 39-40.

[9] Cfr. I parroci di Kabul, op. cit., p. 246.

[10] Cfr. I parroci di Kabul, op. cit., pp. 290-291.

[11] A. Panigati, La tempesta di sabbia non voleva, in «Eco dei Barnabiti», 4-5 (1971), p. 3. Dal 1° giugno al 10 agosto 1971 il P. Luigi Cagni sostituì il confratello Angelo M. Panigati, come cappellano presso l’Ambasciata Italiana di Kabul. Si veda la gustosa descrizione della sua permanenza in L. Cagni, Afghanistan 1971, in «Eco dei Barnabiti», 4-5 (1971), pp. 3-8; L. Cagni, Gli afghani cominciano a domandare, in «Eco dei Barnabiti», 1 (1972), pp. 25-31.

[12] Cfr. S. Gorla, Una scuola della pace a Kabul, in «Eco dei Barnabiti» 1 (2003), pp. 36-40.

[13] Cfr. R. Nannetti, Lavorare, Necrologie, In Memoria di P. Renato Raffaele Nannetti nel Primo Anniversario della morte, Loiano 9-5-1914 – Livorno 2-12-1977.

[14] Cfr. M. Schinasi, Italie – Afghanistan 1921-1941, in «Annali», Istituto Orientale di Napoli. Rivista del Dipartimento di Studi Asiatici e del Dipartimento di Studi e Ricerche su Africa e Paesi Arabi. Direttore Luigi Cagni, vol. 47, fascicolo 2, Napoli 1987, pp. 131-152; Ead., Italie – Afghanistan 1921-1941, II. De l’affaire Piperno à l’évacuation de 1929. Le journal de De Gado, Première Partie, in «Annali», op. cit., vol. 50, fascicolo 2, Napoli 1990, pp. 177-216; Ead., Italie – Afghanistan 1921-1941, II. De l’affaire Piperno à l’évacuation de 1929. Le journal de De Gado, Deuxième Partie, in «Annali», op. cit., vol. 50, fascicolo 3, Napoli 1990, pp. 279-293. Vale la pena accennare a qualche istantanea della loro vita in Afghanistan, paradigma di moltissime altre amicizie che si intrecciavano a Kabul tra persone di ogni nazionalità e confessione religiosa. Di origine francese, May era arrivata a Kabul per la prima volta nel 1954, all’età di 19 anni, su invito dello suo zio, direttore della Dafa (Délégation Archéologique Française en Afghanistan). Si avvicinò al persiano, che studiò assieme all’arabo classico. Al suo terzo viaggio in Afghanistan, alla fine del 1964, conobbe Rolando Schinasi, un italiano nato al Cairo che viveva a Kabul dal 1957. I due si sposarono nel 1965. Lui, fotografo autodidatta, si occupava di commercio, mentre lei era traduttrice, storica e archeologa. A Kabul May cominciò a costruire una biblioteca di opere in persiano, che oggi ha un grande valore, e a comporre una raccolta di fotografie scattate dal marito. La coppia rimase a Kabul fino al 1978, quando i comunisti assunsero il potere. Si veda anche: M. Schinasi, Il libraio analfabeta, RSI (Radiotelevisione Svizzera), Cult. Tv, 19 dicembre 2010, a cura di Andrea Canetta e Valerio Thoeni (la1.rsi.ch/home/networks/la1/cultura/Cult-TV-II/2010/12/19/libraio).

[15] Cfr. le immagini in F. Lovison, Verso l’80° Anniversario dei Barnabiti in Afghanistan. Le Petites Soeurs de Jésus di Kabul e l’album fotografico di Rolando Schinasi da loro donato al P. Nannetti, in «Barnabiti Studi» 29 (2012), pp. 225-271, tratta da ASBR, Archivio Fotografico, Album Schinasi. La quasi totalità delle fotografie della Collezione Schinasi è stata raccolta in Afghanistan prima del 1978. Alcune sono state regalate, altre acquistate presso il libraio Abd al-Samad Maymanagi, altre ancora sono state scattate da Rolando Schinasi. Tutte insieme sono circa quattromila foto in bianco e nero e a colori. La collezione copre un periodo di quasi un secolo, dal regno dell’emiro Abd al-Rahman (1880-1901) fino al 1978, anno della partenza della coppia Schinasi dall’Afghanistan» (www.swissinfo.ch/ita/cultura/cit.).

[16] ASBR, Fondo Afghanistan, Sala Retro Ovale, 1 Scaf. 12.1/12, P. Angelo Panigati, “Così ha voluto Dio”. Nel ricordo dei 25 anni vissuti in Afghanistan unico sacerdote italiano, opuscolo a stampa, dossier SM 6/03, III.

[17] Cfr. I parroci di Kabul, op. cit., pp. 153-155.

[18] Fra tutti così scriveva la signora Migh Fily Ellen: «Thank you very much. We are all one in our Lord and savior. God bless you», mentre Pat Gordon aggiungeva: «Thank you for your hospitality. It was a real act of kindness and Christian concern» (ASBR, Fondo Afghanistan, Sala Retro Ovale, 1 Scaf., 12.1/11); cfr. anche Diari di P. Angelo Panigati, I, pp. 7-8. Sul Natale, come momento propizio di incontro, si veda anche G. Bassotti, Kabul, Natale 1983, in «Eco dei Barnabiti», 1 (1984), pp. 12-17.

[19] Diari di Padre Angelo [Panigati], I, p. 37.

[20] Così scriveva il P. Angelo Panigati il 16 ottobre 1996: «Per un quarto di secolo ho visto gli afghani vivere il loro Islam con moderazione e tolleranza. Ciò che sta succedendo è una tragedia. Perfino un regime come quello di Teheran considera l’estremismo dei Taleban in Afghanistan irrazionale e deleterio per il buon nome della religione mussulmana nel mondo. Le forze moderate si stanno coalizzando. I tagiki del Panshir, gli uzbeki della steppa e gli hazarà erano finora rivali per il desiderio di potere e per motivi strategici, economici e etnici. Ora vogliono far tornare il paese alla moderazione e alla tolleranza. Le possibilità di una soluzione positiva dipendono dai venditori di armi e dagli interessi politici, economici e strategici delle potenze straniere che stanno fomentando la guerra. Bisognerà debellare, non soltanto il fanatismo ma anche la mancanza di buon senso di alcuni governanti del mondo», in S. Gorla, L’esperienza di un guidatore di preghiera: l’Islam è tolleranza, in «Eco dei Barnabiti» 4 (1996), p. 23.

[21] Panigati, “Così ha voluto Dio”, op. cit., XVI-XVII.

[22] Panigati, “Così ha voluto Dio”, op. cit., IV.

[23] Panigati, “Così ha voluto Dio”, op. cit., XXVIII-XXIX.

[24] F. Filoni, Presentazione, in Ottanta anni in Afghanistan, op. cit., pp. 5-7; cfr. anche I parroci di Kabul, op. cit., p. 451.

[25] Accanto all’attuale “Parroco di Kabul”, il barnabita P. Giovanni Scalese, presente dal 2014, tutt’ora operano le Missionarie della Carità dal 2006 con un orfanotrofio, i Padri gesuiti del Jesuit Refugee Service dal 2005, la Comunità Intercongregazionale di “Salvate i bambini di Kabul” dal 2004, i diversi cappellani militari dei contingenti militari e la Caritas Internationalis dal 2002, con alcune caritas nazionali: tedesca, irlandese, olandese e nord americana e, dal 2004, anche quella italiana. Cfr. I parroci di Kabul, op. cit., pp. 401-403.

[26] ASBR, Fondo Afghanistan, Sala Retro Ovale, 1 Scaf., 12.1/11, Diari di P. Angelo Panigati, II, 1979, p. 72.

P. Nannetti a Kabul

P. Panigati a Kabul