Da IL CASTELLO DI UDINE (1933)

DI C. E. GADDA

            Nel brano APPRODO ALLE ZÀTTERE c’è il brano cui si narra -della crociera fatta da Gadda nel 1931 sul Conte Rosso– quando approda all’isola di Rodi. In un vorticoso crescendo si ripercorre Cesare e il suo De bello gallico, nominando per inciso anche i Barnabiti.

Del resto, Cesare adolescente ha camminato quest’isola e il suo ginnasio-liceo gli ha masso tra mano lo stile (compermesso), con cui, dopo che l’Edipo e le Lodi di Ercole e avanti che l’Itinerario, s’ingegnò d’inscrivere quell’altro discreto “componimento” che è la Guerra di Gallia. I societari e la lega dei diritti dell’uomo arricciano il naso, recalcitrando: quante vite umane! Napoleone terzo ne ha curato una traduzione assolutamente raccomandabile: e allora Giosuè Carducci ha finito per uscir dai gàngheri, come al solito! E ha messo in termini il suo malumore: due sonetti che fanno tutto il possibile per riuscire sarcastici. I Barnabiti trovano che il libro è adattissimo per i loro alunni, il di cui cervello essi sogliono chiamare “la mente del giovinetto”: non ci sono femmine, non ci sono porcherie. E la signora Colombo ne trae lo spunto, (dalla guerra di Gallia), per insinuare, così senza aver l’aria, che suo figlio è un vero ingegno: si tratta del giovine e promettente Gian Carlo alle prese con la tradotta domenicale della oratio obliqua, traino diabolico di infiniti futuri e di trapassati imperfetti l’uno agganciato all’altro senza speranza di passaggio a livello, con macchina e tender di interrogative indirette e codazzo orrendo di gerundivi necessitanti, dentro una nuvola nera di pròtasi senza l’apòdosi e di apòdosi con sottintesa la pròtasi. Ci ha studiato su otto anni, il caro ragazzo, sicché adesso è perfettamente in grado di sgrammaticare per tutto il resto de’ suoi giorni.