I FIGLI CONVERTITI
Mt 21, 28-32 – XXV domenica del tempo ordinario
Commento per lavoratori cristiani
Il tema centrale della parabola che Gesù racconta è il cambiamento. Un figlio, dopo aver rifiutato l’invito del padre al lavoro nella vigna, si pente e aderisce alla proposta. L’altro invece risponde affermativamente alla richiesta, poi cambia idea e non mantiene la parola. Solo nel primo caso la trasformazione corrisponde alla dinamica della conversione: un cambiamento di rotta, ma verso la direzione giusta. Soprattutto, un cambiamento di mentalità, di visione delle cose, che la parabola esprime sottilmente nel definire l’identità del protagonista, il padrone della vigna: all’inizio è “un uomo” (v. 28), alla fine diventa il padre, colui che ha espresso la propria volontà.
Questo, di fondo, è l’essenziale su cui la Parola ci orienta. La dinamica della conversione è un passaggio da un modo di agire sbagliato a un altro diretto a fare il bene. Ma più profondamente, si tratta di una trasformazione del proprio punto di vista: si comincia a vedere che colui che chiede, che ‘comanda’, non è un uomo qualsiasi, tanto meno un padrone. Si tratta piuttosto di mio padre. E allora si coglie, scendendo ancor più radicalmente, che la vera conversione necessariamente conduce a – o nasce da… – l’esperienza di un mutamento degli affetti: quest’uomo, che è mio padre, diviene infatti oggetto del mio amore. Perché scopro che, previamente, lui ama me.
Gesù riconosce questa dinamica nei pubblicani e nelle prostitute, cioè nei peccatori pubblici che, oltre ad essersi abituati a frequentare il Maestro di Nazareth, hanno ascoltato la parola del precursore Giovanni. In loro – o almeno in molti di loro – il processo esteriore si manifesta nella decisione di lasciare comportamenti errati e modi di fare peccaminosi. Basti pensare alle esperienze di Matteo e di Zaccheo, dopo aver incontrato Gesù, come pure ai meravigliosi racconti di tante donne che si aprono a una nuova vita anche dopo aver sbagliato nei loro affetti, grazie allo sguardo misericordioso del Messia.
Ma dietro, o forse dentro questi cambiamenti esterni, abita un processo ben più significativo. Si tratta della progressiva scoperta di essere parte di una relazione nuova, dove l’amore che precede suscita una risposta altrettanto desiderosa di manifestare solo l’amore. Che poi è il meglio di se stessi. Ma è anche la nostalgia intensa del cuore, espressa a volte pure in atteggiamenti e comportamenti non adeguati. Sempre l’uomo e la donna cercano di prendere e dare amore; non sempre lo fanno in maniera corretta, rispettosa di sé e degli altri. A volte nemmeno di Dio.
Ma questo Dio non si sofferma sui particolari, e va sempre alla fonte. Tocca proprio quel desiderio di esistere che si manifesta come un grido di attenzione, di riconoscimento, di cura di cui sono intrisi modi di fare aggressivi o seduttivi. Pubblicani e prostitute, e con loro ogni peccatore, di fatto stanno urlando continuamente al mondo, e probabilmente a Dio, il proprio bisogno di un senso e di un affetto che renda vivibile la propria vita. Essere utili e importanti per qualcuno, essere accolti e valorizzati, essere stimati e amati come persone uniche e irripetibili, totalmente ed eternamente: in fondo è il grido dell’eterno che risuona dentro la fragile cassa di risonanza della nostra mortalità, della nostra creaturalità.
Pubblicani e prostitute sono emblema di chi sta a contatto diretto con questa fragilità, al punto da farne persino uno stile di vita. Ma il peccato – paradossalmente –, se riconosciuto e pianto, ha la capacità di sbatterci in faccia proprio quella sete di amore che ci muove, tutti alla stessa maniera, tutti con la propria originalità. Scaturisce da lì il pentimento, che è gratitudine commossa di un nuovo inizio, più vero e realista, piuttosto che senso di colpa per scivolamenti passati.
Fare la volontà del Padre, dunque, appare come azione di ‘sveglia’ alla propria condizione di figli. Ci si accorge, specialmente quando la si è toccata duramente con mano, che la nostra condizione è di debolezza, e che da soli non bastiamo a noi stessi. Ci si accorge che con il peccato abbiamo corso affannosamente vie sbagliate per cercare di nascondere a noi stessi proprio la nostra fragilità, facendo l’esperienza invece di veder crescere il vortice del nostro abisso di infelicità. Ci si accorge che non sappiamo trovare pienezza se non accettando che siamo vulnerabili, e persino a volte disastrosamente violenti o sensuali.
Ma ecco allora che, fra molte lacrime di liberazione, è già cominciato il processo di salvezza, la conversione comincia a dare i suoi frutti di grazia. Perché in questo vuoto già sta irrompendo l’amore gratuito del Solo che può colmare tanta aridità. E la sua penetrante azione è svelamento del volto di un Padre misericordioso che perdona: spazza via l’errore, il peccato; corrobora con balsamo di Spirito le ferite del nostro io; rafforza l’esperienza gioiosa di sentirci – davvero, affettivamente sentirci… – figli prediletti.
È questo il lavoro nella vigna: l’impagabile occasione di diventare partecipi del succo gustoso del vino buono, del vino delle nozze, del vino di famiglia.
Padre Luca Garbinetto
Pia Società San Gaetano
Omelia del 27 settembre 2020. Domenica XXVI del T.O. / A
“E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Per i pubblicani possiamo prendere come esempio Zaccheo. Zaccheo, di Gerico, “capo dei pubblicani e ricco”, il quale “accolse, pieno di gioia”, Gesù nella sua casa e, avendolo ascoltato, disse: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Zaccheo era “un peccatore” e aveva commesso i peccati che facevano i pubblicani, i quali “esigevano di più di quanto era stato loro fissato” (Lc 3,13), ma, avendo “riflettuto” con Gesù, “si è allontanato da tutte le colpe commesse” (Ezechiele, lettura) . Colpisce la determinazione con la quale Zaccheo “si è allontanato” dai suoi peccati: infatti, con volontà ferma e risoluta, promette a Gesù di “dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto a chi avesse frodato”. Perché sentissero “quelli che “mormoravano” perché era “andato ad alloggiare da un peccatore!”, Gesù rispose a Zaccheo: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».(Lc 19,1-10).
Per la peccatrici, possiamo prendere come esempio “una donna peccatrice”, la quale, “saputo che Gesù si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi indietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato”. Gesti che rivelavano la fede della donna in Gesù e il suo “molto” amore, e la determinazione di cambiare vita. Per questo, Gesù disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati … La tua fede ti ha salvata ; va’ in pace!”.
Noi siamo come “il primo figlio che rispose al padre: “Non ne ho voglia”, ma poi si pentì e andò nella vigna”, oppure come il “secondo figlio che rispose: “Sì, Signore”, ma non andò nella vigna? Cioè, abbiamo la determinazione, la volontà ferma e risoluta di amare il Signore e di fare la sua volontà? Ciascuno di noi sa come si trova davanti a Dio. Possiamo pensare che, anche se avessimo commesso dei peccati gravi, li avremo confessati, per cui adesso partecipiamo alla Messa in grazia di Dio. Invece, potremmo trovarci nella situazione del “secondo figlio, che, quando il padre gli comandò di andare a lavorare nella vigna, gli rispose :“Sì, Signore”, “Ma non vi andò”. Cioè, potemmo trovarci nella situazione di persone che fanno dei buoni propositi, che rimangono però irrealizzati, per mancanza di “determinazione”, di volontà ferma e risoluta di “compiere la volontà di Dio”.
E qui, il nostro Santo Fondatore, Antonio M. Zaccaria, nella Lettera (XI) agli sposi Omodei, ci offre degli esempi, che ci aiutano a rispondere. Forse non commettiamo “peccati grossi, ma non abbiamo rimorso di coscienza dei peccati piccoli”; Certamente non bestemmiamo, e non insultiamo; ma non ci prendiamo troppa pena se perdiamo la calma e ci arrabbiamo; se vogliamo mantenere la nostra ragione e non cediamo all’altro nelle discussioni; non diciamo male degli altri, ma non stimiamo molto peccato se spesso ci diffondiamo in chiacchiere oziose e inutili; non mangiamo troppo e non ci empiamo di vino come fanno gli ubriachi, però ci piace mangiare senza bisogno qualche cosuccia che ci piace; ci asteniamo dalle sensualità viziose della carne ma ci piacciono le conversazioni ed altre curiosità; ci piace pregare ma poi siamo distratti e dissipati; non cerchiamo gli onori ma se veniamo lodati ci proviamo piacere. –
Questi esempi, ed altri ce ne sarebbero, S. Antonio Maria li adduce per dare l’idea del cristiano “tiepido”, che non è né caldo né freddo, che non fa peccati mortali ma fa caso dei peccati veniali; che lascia stare le cose illecite vuole tutte le cose lecite; che raffrena l’azione sensuale ma gli piace la sensualità del vedere; che così vuole il bene, che non vuole tutto il bene; che si tiene a freno in parte ma non vuole tenersi a freno in tutto, non in un tratto ma neanche in lungo tempo. (Scritti, ed. ’96, p. 38-39). Il “tiepido” è un cristiano che non è determinato a “compiere la volontà di Dio.. – E ad essere determinati, così invita il nostro Santo, nella Lettera (II) ai suoi Confondatori: “Se non provvediamo, Carissimi, a questa mala erba, essa produce in noi un pessimo effetto, cioè la negligenza, la quale è totalmente contraria alla via di Dio; … perché nella via di Dio la prima cosa che si ricerca è la prestezza e sollecitudine” (Scritti, ed.’96, p. 10). O Maria, fa’ che amiamo il Signore con tutto il cuore.
P. Antonio Francesconi, B